domenica 14 luglio 2013

Il giardino del duca di Kaberlot

il sogno in cambio del sogno” [Platone]

Il duca di Kaberlot se ne stava immobile in cima alla breve, ampia scalinata che dava sul giardino. I gradini, facendo affidamento più sulla levatura d’animo del duca che sui pochi metri di dislivello, offrivano al loro signore l’abbraccio, con un sol sguardo, delle fioriture sottostanti. Ogni mattina la timida avvisaglia dell’aurora indovinava la presenza del duca sul terrazzino, nella medesima postura; nell’aria fresca del mattino, il sole di Aberdeen ne scorgeva e ritraeva l’immobile sagoma. La gronda di folte sopracciglia pronte a spiccare un volo corrucciato, offriva penombra e riparo agli occhi del duca, concentrati, come sempre ormai accadeva dal giorno del fatale duello, a fissare tesi e pensierosi la variopinta macchia floreale. La figura del duca, finta smilza ma genuinamente segaligna, si stagliava senza tradire ansia alcuna, nessun indizio di inquietudine trovava scampo dalle segrete dell’animo.


Uno spirito avvezzo alla familiarità col duca, avrebbe saputo cogliere un lieve, intermittente fremito lassù a sinistra, che in impercettibili contrazioni travagliate si propagava allo zigomo, facendo incursione fin sulle terre alte della guancia, avamposto estremo del tormento ducale. Avrebbe anche notato, il solito animo confidente, che, fugace e repentino, lo sguardo del duca lanciava fulminanti saette di fissità su quella parte del giardino, a ridosso della massiccia muratura della rocchetta, proprio là dove si era svolto il deprecabile scontro. Ma, ben lungi dal concedere confidenza se non ai pari suoi, reputandosi il duca principalmente pari a se stesso, le persone che godevano accesso alle sue remote, segrete stanze – a detta del duca stesso - si potevano contare sulle dita di una mano monca di quattro. Il che, in tal frangente, non recava sollievo alcuno al duca di Kaberlot, poiché quell’unica persona già spartiva il greve fardello di quell’atto d’ingiuria, che ora tanto lo angustiava. Anzi, il di lei tormento – che di una preziosa nobildonna si fregiava la ducale confidenza - era causa del di lui medesimo esacerbato umore, acuendolo dolorosamente. Nemmeno il maestro Perrillo avrebbe saputo affondargli più dolorose e precise stilettate nel petto.

Ma mentre io, umile errante scrivano, mi attardo nell’immane impresa di ritrarre le scoscese vastità di guazzabuglio alloggiate dentro il duca di Kaberlot, il contenitore delle stesse, senza dare a intendere la pesantezza che recava seco, chiamata a raccolta tutte le schiere di volontà d’animo, spirito di pugna, e rassegnazione al fato, si era fatto forza, aveva disceso con marziale, ferma gravità i pochi scalini, e si avviava sotto il sole prossimo al meriggio lungo la stradina che solcava le fioriture.


Dovunque si posasse lo sguardo, rododendri, azalee, fuchsie, primule, campanule, artemisie, margherite, glicini, bucanevi a tempo debito, begonie e paturnie a volontà, violette e ciclamini, componevano una invidiabile dipinto, una perfetta architettura di colore, vicendevolmente completandosi, sostenendosi, elargendosi a profumato, pittorico conforto. C’erano, immancabilmente sparsi a granella in ogni dove, eriche, felci e gloriosi fiori di cardo. Per far piacere alla duchessa, era stata approntata anche una serra per le tamerici, E tutti questi fiori insieme avrebbero donato quella consueta e sempre consapevole gratuità di benessere allo spirito del duca, se non fosse che oramai, la loro vista, instillava tossine d’apprensione al signor loro.

Nessuno avrebbe avuto da eccepire sul meraviglioso colpo d’occhio del giardino. Puntualmente lo lodava anche Polpetta, ogni qual volta, come adesso, la sua nefasta figura incrociava l’incedere ducale. Il duca di Kaberlot cercava di ridurre al limite della casistica intenzionale l’aver a che fare col Polpetta. Quando tentava di ricordarsi il nome dell’inserviente, scopriva con piacevole stupore di non averne memoria alcuna. Da sempre lo appellava Polpetta, con un po’ di rammarico per l’offesa recata alla sublime, porca pietanza, ma con la soddisfazione di aver concentrato in quell’epiteto una trita mediocrità umana, macinato di bassezza, volgarità e sudiciume interiori, che trapelavano all’esterno sottoforma di perenne, untuoso, sgradevole sudore. Il duca si era trovato tra i piedi quel grumo di segatura deambulante il dì che, presa residenza nel castello di Inveraray, ispezionando stalle e recinti per la cernita del bestiame, scorse un maiale in più nella porcilaia. Notando che il suino, all’ingresso del duca, si era alzato in equilibrio incerto sulle zampe posteriori dopo adeguati incitamenti di stivale, dapprima il duca si pensò proprietario di un porco particolarmente sveglio, ma dopo alcuni istanti l’entusiasmo cedette quartiere alla rassegnata proprietà di un umano oltremodo deficitario. Pur detestandolo da subito, decise tuttavia di non disfarsene, sia per non incrinare il bilanciato equilibrio della sorte, sia per concedere agli animali del duca di Kaberlot delle stalle e dei recinti del duca di Kaberlot, adeguata nettatura fisiologica poscia espletazione, come spettava a bestie di siffatto rango di ducale appartenenza: a mani nude. Certo è che al Polpetta era fatto espresso divieto sia di darsi in pasto sia di somministrar pasto al feroce e spietato mastiff, custode del maniero di Inveraray.


‘Ndurmenta era giunto al castello dentro una cassa, frammisto a un’infinità di bulbi di fiori blu, che parevan tulipani pur non essendo tulipani, gradito dono del duca d’Auge, amico di lungo corso del duca di Kaberlot, ed entrambi orgogliosamente imparentati, da parte di birra, con l'eccellente duca di Kilkenny. Gettata una rapida e soddisfatta occhiata agli attesi bulbi, il duca si era chinato verso l’inatteso pulcioso allegato e inscatolato a cadeaux, con tanto di nastrino a trama scozzese sul capoccione. Portò il suo naso a pochi centimetri dal tartufo umido del terrificante mastiff, lo fissò col più arcigno e minaccioso dei suoi sguardi di repertorio. Il duca di Kaberlot si pregustava il cucciolo pisciarsi addosso dallo spavento, ma ne ebbe come premio la faccia lavata da spavalde passate di lingua. Tanta prova d’ardimento e tanto sfoggio di personalità, furono più che sufficienti al duca per assegnare al prode ‘Ndurmenta il posto di guardia del portone d’accesso, nonché il diritto a ricever cibo e scambio di vicendevoli effusioni soltanto dalle mani del duca e della duchessa di Westie.

Sto però divagando, mentre l’appiccicoso Polpetta, andando a pulire il culo ai cavalli, celebrò anche quel giorno la bellezza del giardino, facendo fede sulla propria inamovibile ignoranza di ogni estetica e sulla insospettata tolleranza del buon duca verso i dispari di nobiltà, scherzo del destino. D’altronde, qualunque altro umano di discreta sensibilità avrebbe tessuto sincere lodi al giardino; lodi alle quali, sol ora me ne vergogno, unii pure le mie la volta che ebbi il privilegio di posarvi lo sguardo, ignaro ancora dello scempio efferato celato sotto tanta apparente, perfetta meraviglia.


Ma è tempo che brandisca la penna come una spada e mi armi di coraggio per narrare di quel fatto. Accadeva alcune settimane addietro che, come loro consuetudine, il duca di Kaberlot e la soave amica sua, duchessa di Westie, passeggiassero tra le aiuole del giardino. Come loro solito, discorrevano d’astrologici influssi, di connubi tra zenzeri e meloni, di alchimie dell’anima, di passamanerie, nastrini e pot pourri, cornamuse e violoncelli, trombe e chitarre, di alambicchi dello spirito, di ascendenti e discendenti, di stelle distanti e molecole scostanti, di spade, bastoni, coppe e niente denari, di miscele improvvisate su spunti stantii, ma che nell’intingolo della loro empatia si tramutavano in sugosi pretesti nei quali inzuppare ogni loro conversazione d'affetto. Sovente usavano la risata per tovagliolo, lasciando le lacrime ai rispettivi fazzoletti. Invero quel giorno, col senno di poi, il cielo, solitamente di un limpido blu macchiato di bianche, affaccendate nuvole, mostrava una rara, malinconica copertura, che si sarebbe potuta dire grigio perla, se non fosse che l’immagine dei pulcini di cicogna, quando il loro candore vira in timida fuliggine, rendesse l’idea con maggior pregnanza di vera, naturale nobiltà. Fu proprio allora, mentre dibattevano di vanità, incomprensione, perfezionabilità, preziosità elettive, di bruschette all’aglio con cipollotti di tropea, che si trovarono di fronte a una tragedia prossima a consumarsi.


Proveniente da una macchia di colore fucsia, poco di lato, prima un lieve ronzio, subito elevatosi a inquietante, snervato brusio, attirò sguardi e attenzione di quattro pupille apprensivi. Il duca scostò una foglia verde scuro, e ai loro occhi si parò una scena di battaglia. Dulcinea stava battagliando allo stremo delle forze con due calabroni gaglioffi. La piccola ape, seppur inferiore per numero, forza fisica ma non certo d’animo e coraggio, si batteva strenuamente e sprezzante della soverchiante minaccia. Scorgere Dulcinea in difficoltà e sguainare la preziosa toledana fu nel duca di Kaberlot unico pensiero e unico gesto. Ridotti presto a mal partito, pressati da un dulcineo pungiglione e dalla ducale lama, i due calabroni, passati a fil di spada, si rassegnarono ad andare ad annusare l'erba dal lato delle radici. Purtroppo, e fu allora che l’irreparabile accadde, nel precipitare al suolo, una delle due lardose molestie, sgualcì col pungiglione un petalo di uno dei ciclamini. Il duca ne soffrì oltremodo, amando egli i ciclamini sopra ogni altro fiore seguito a ruota dalle margherite; ne fu ferita profondamente anche la duchessa, per la quale ogni manifestazione di bellezza meritava incondizionato amore. Subito furono prestate le cure del caso alla piccola, coraggiosa Dulcinea, alla quale in duca impose un mese di riposo a letto, adibendole un lettone a tre piazze, due campanili e cinque campielli in una stanza del castello, sotto ferrea dieta ricostituente di propoli e pappa reale, con regolari impacchi di petali essiccati.

A beneficio del lettore, occorre precisare che il duca chiamava Dulcinea ognuna delle sue adorate api selvatiche da miele, eppure ciascuna delle sue infinite Dulcinee il duca portava così sinceramente nel cuore che, senza alcun rischio d’affettazione, a ogni Dulcinea voleva un tal bene che nemmeno l’essere l’ultima Dulcinea su tutte le terre di Scozia avrebbe potuto accrescerne di un solo milligrammo l’individuale affetto. Soltanto a Dulcinea, e a nessun altro, tanto meno a mani umane, il duca di Kaberlot assegnava il compito di accudire il giardino del castello. Le mani della duchessa di Westie, a memoria mia, erano le uniche ammesse a insinuarsi tra i fiori del duca, colmandoli di carezze, per il piacere dei fiori stessi, del duca e, presumo, della duchessa.

Prestate le cure del caso a Dulcinea, l’amorevole dolcezza del duca per la propria ape cedette il passo all’ira verso i cadaveri dei profanatori. Alzò dunque la voce il duca di Kaberlot, imponendo la venuta del Coso. Il Coso era l’altro deprecabile lascito che il duca, suo malgrado, si era ritrovato a tollerare all’interno del castello. Era, a esser precisi, una Cosa, questo Coso; così almeno il duca osava arguire dalle gibbosità sul petto, sebbene non avesse abbastanza fegato per immaginare da quale inciampo di copula (accozzaglia inglese, senza ombra di dubbio) fosse sortita quella Cosa dallo spirito latrinamente inchiavabile. L’avrebbe definita brutta, se nominare la bruttezza non avesse comunque richiamato l’accenno per contrasto all’idea di bellezza. La Cosa mostrava una innata predisposizione all’insulsaggine e all’egoismo, aveva negli occhi una vitrea lattiginosità che il duca non aveva riscontrato nemmeno in salmoni morti d’apatia dopo dieci giorni d'agonia. Esercitando il diritto di conferir titoli, si era nominato all'istante oftalmologo dell’io profondo, aveva diagnosticato nella Cosa un conclamato quanto incurabile caso di presbimioastigmaticopia dell’anima e al contempo, per non mancare di rispetto all’idea stessa di femminilità, aveva esiliato la Cosa dalla categoria del genere femminile, relegandola nell’indistinta insignificanza di Coso, quindi adibendola a svuotatrice di pitali e padelle.

Giunse dunque il Coso al cospetto del duca di Kaberlot, che così bofonchiò: “Raccatta con le mani quegli scarti di molestia. Che soltanto scarafaggi, rogne e parassiti giungono fin qua dai coronati bifolchi a sud di Dumfries. Portali alla porcilaia e versaci sopra con i palmi a coppa abbondante mescita d’urina variegata. Quindi dì al Polpetta di tumularli sotto miscellanea d’escrementi, facendo anch'egli delle mani nude attrezzo.”

Amministrata la giustizia, il duca di Kaberlot restò a soppesare l’accaduto, al fianco della duchessa di Westie. Entrambi stettero un’eternità di istanti a fissare il petalo di ciclamino ignominiosamente screpolato. Il duca ebbe piena consapevolezza della gravità del fatto nel momento in cui si ritrovò a sostenere, dopo averlo colto al volo, il corpo svenuto della duchessa, che rivelò tutta la verace grevità contenuta nello smilzo figurino. Il duca di Kaberlot si fece mulo da soma per la matassa di patemi dell’amica sua, tara corporea compresa, la qual tara, almeno ad ascoltar braccia e schiena, ricopriva nella presente ambascia un peso niente affatto irrilevante. Deposta l’anima sgualcita della duchessa di Westie nella più bella stanza affacciata sui verdi boschi di Glenmore, il duca tornò a contemplare il giardino da in cima la breve, ma larga scalinata.


E così continuava a fare il duca, dal dì dello sfregio. Non c’era nulla da fare, di fronte a un accadimento tanto drammatico nei fatti quanto semplice nel resoconto. Il suo giardino, alla vista dei meno sensibili, continuava a potersi dire scrigno di perfetta armonia, bellezza senza eguali, arazzo di relax. Eppure, quell’increspatura stava là, celata ma immutata, sotto una larga foglia verde scuro, a destabilizzare, dal petalo di un ciclamino, tutta l’apparente, fittizia gioiosità del giardino di Invereray.

Il pomeriggio cominciava ad allungare l’ombra alle spalle del duca, ma era nell’animo del duca l’ombra più cupa e affranta, appena tremolante sull’increspatura della stizza ducale. Egli, il duca di Kaberlot, signore di Pitlochry, Inveraray e quanti altri luoghi si fosse preso briga di compitare prima ancor che conquistare, i cui domini si estendevano dalla baia di Dundee all’isola di Tiree, da quella di Gigha alla piana di Speyside, la cui parola era legge in lungo in largo e di traverso, dalla foresta di Ardkinglas fin oltre le distese di Glenmore, nulla poteva per ricomporre quel delicato petalo spiegazzato, per redimere quella dannata imperfezione che rendeva precaria ogni conquista d’armonia.


Così se ne stava, giorno dopo giorno, per tutto il dì, a tener lo sguardo puntato e pensieroso sul giardino. Doveva sostenere la vista di uno spettacolo irritante, ma la pena era nulla se comparata al supplizio di dover stare a guardare gli abissi di malinconia e tristezza infinite dentro gli occhi della duchessa di Westie. La scena orripilante del petalo sgualcito, l’aveva oltremodo provata e debilitata.

Stava ora il duca di Kaberlot nuovamente in cima alla scalinata, larga e breve, e lì gli ultimi raggi del sole, dopo essersi impreziositi tutto il giorno sulle terre di Scozia, giocando con i bianchi massi delle Highlands e con i bruniti cannoni di Edimburgo, vennero a congedarsi per l’alba dell’indomani dalla fronte del duca, soffiando una carezza di vento sulle rughe pensierose; quindi si appisolarono come loro solito, tra Fort William e Inverness.

Era solito il duca, a quel punto, passare in rassegna la guardia del castello, totalmente assegnata al prode ‘Ndurmenta. Sbrigate le consegne, in forma di pacche sulla capoccia, grattini e grattoni, il duca rientrava nelle stanze interne, con il muso di ‘Ndurmenta al seguito, attaccato alle braghe. Fin dal primo turno di guardia notturna, il mastiff donatogli dal duca d’Auge si era rivelato un formidabile uggiolatore. Per tutta la notte, sfoderando insospettabili romanticismi di latrati, aveva tenuto sveglio il duca di Kaberlot e quattro contee circostanti. Un bifolco l’avrebbe detto pavido, ma il duca imputava a nobiltà d’animo insofferente alla solitudine e alla dedizione di voler vegliare sulla ducale figura anche nel cuore della notte, il fiero comportamento di ‘Ndurmenta. Cosicché dopo la prima notte, tutte le successive ‘Ndurmenta le trascorse nella stanza del duca, dormendo non già ai piedi del letto come un qualsiasi cane, ma sul letto col muso accoccolato sopra i piedi del duca, come si confà a valoroso mastiff di ducale lignaggio.

Quella sera tuttavia, con ‘Ndurmenta di scorta al padronale deretano, il duca di Kaberlot alzò lo sguardo al cielo, richiamato dalla luna che gli solleticava una guancia. Fissò l’astro autodidatta, il duca di Kaberlot. Pensò all’increspato petalo nel giardino del duca di Kaberlot se medesimo. E, guardando bonario gli umidi occhioni di ‘Ndurmenta, confidò sottovoce al capo della guardia: “Dubito che il tempo sia galantuomo e tanto meno un pari mio, ma di certo ha le sue stagioni, i suoi inverni e le sue primavere, i suoi soli e i suoi tramonti, le sue lune e i suoi chiari, le sue fioriture e i suoi petali. Questa non è stagione di fioriture ‘Ndurmenta, è stagione di petali sgualciti, di bellezze deturpate. C'è da soffrire e tenere duro, in attesa di tempi migliori. Andiamo a deprimere ulteriormente la duchessa di Westie con questa riflessione, vah.” In tutta risposta ‘Ndurmenta scodinzolò felice nell’accogliere l’epifania ducale, e ligio alla mansione, non appena il duca aprì la porta, lo precedette all’interno per controllare che tutto fosse a posto, che non incombessero minacce e che, almeno nelle segrete stanze del castello, niente molestasse i pensieri del duca di Kaberlot.



addì, 14 luglio un qualche anno appresso la gloriosa giornata di Stirling, cum dedica

[tratto da Le memorie del duca di Kaberlot, che si pronuncia “caberlò”]
K.

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